Giacomo Orefice e l’apertura dei Conservatori ai musicisti dilettanti
Questo articolo è un estratto del capitolo “L’inserimento dei Conservatori nel sistema di istruzione nazionale” (pag 98 – 106) del libro di Clementina Casula “Diventare Musicista, Indagine sociologica sui Conservatori di Musica in Italia“, Universitas Studiorum S.r.l. – Casa Editrice, via Sottoriva, 9 – 46100 Mantova (MN), 2018.
La stessa ‘mutazione genetica’ subita dal Conservatoire parigino a fine Ottocento si osserva negli altri istituti musicali europei, per i quali esso rappresentò il modello didattico di riferimento.
La tendenza alla monocultura del virtuosismo solistico si fa così marcata da rendere difficile il reperimento di pianisti per accompagnare i cantanti o di strumentisti per completare gli organici orchestrali; questi inoltre, una volta scovati, non sono comunque poi in grado di mettere da parte l’approccio istrionico e individualistico del virtuoso, come nota l’allora direttore dell’Istituto musicale di Firenze:
“I corsi d’insegnamento delle principali scuole dell’istituto, percorrono, ciascuno, fino agli estremi limiti lo scibile rispettivo al ramo che trattano dell’arte. [… Sentiamo] i violinisti, i flautisti, i clarinettisti, i trombisti, tutti insomma gli allievi delle scuole strumentali, che per afferrare un documento legale di capacità, qual è il diploma di alunno emerito, s’arrabattano a dar prova di virtuosità da concerto, [… così] mentre aumenta ogni anno la schiera dei concertisti, diminuisce a vista d’occhio quella dei suonatori d’orchestra; e mentre si ha un visibilio di pseudo pianisti e pianiste trascendentali, il numero di coloro che sappiano accompagnare correttamente un pezzo per canto si fa ogni dì più esiguo. [… Gli strumentisti], anche se condiscendono, per loro degnazione, a far parte di un’orchestra, vi portano i modi del suonare di concerto, perché superbi della loro virtuosità vogliono metterla in evidenza a qualunque costo; così accade che nelle esercitazioni orchestrali, contro ogni ragione del tessuto strumentale, ora si sente sgallettar fuori l’oboe, ora il clarinetto, ora il fagotto” [Tacchinardi (1877: 50), citato in Delfrati (2017: 81)]
Diversamente dal Conservatoire parigino gli Istituti musicali italiani di fine Ottocento vivono una profonda crisi organizzativa, caratterizzata da «anarchia pedagogica e disciplinare» [Questi i giudizi espressi nel 1871 dal critico musicale Girolamo Alessandro Biaggi nella rivista Nuova Antologia, riportati in Delfrati (2017: 106)], arretratezza culturale, scarsa selettività nel reclutamento sia della docenza sia degli allievi, mancanza di adeguate strutture logistiche (Delfrati 2017: 27). La situazione è notevolmente differenziata dal punto di vista territoriale: alcuni Istituti discendono dagli antichi Conservatori seicenteschi; altri, che si ispirano al più moderno modello del Conservatoire parigino, sono sorti su impulso del regime napoleonico, o invece da scuole musicali annesse ad Accademie di Belle arti (Colarizi 1971, 1984; Maione, 2005: 1-5; Sanguinetti 2003: 19-21).
Nell’ambito del processo di unificazione del Regno e di centralizzazione delle sue strutture amministrative si provvede alla nazionalizzazione dei principali Istituti: tra il 1861 e il 1923 sono statalizzati quelli di Milano, Napoli, Palermo, Parma, Roma e Firenze. Sorge dunque l’esigenza di una loro organizzazione didattica e normativa unitaria, avviata dai ministri della Pubblica Istruzione con l’istituzione di commissioni ministeriali composte da autorevoli musicisti, direttori e docenti degli istituti. Nel 1899 è emanato un provvedimento [Si tratta del Regio decreto del 2 marzo 1899] che definisce gli insegnamenti impartiti nei corsi principali, i programmi per l’esame finale, i titoli di cultura generale richiesti in uscita per il completamento degli studi. Il provvedimento definisce alcune caratteristiche che resteranno distintive dei moderni Conservatori italiani nel Novecento, come l’assenza di programmi didattici a favore della definizione flauto, oboe, clarinetto, fagotto, corno, tromba e trombone, strumentazione per banda. Non sono date indicazioni specifiche sui corsi intermedi dei corsi principali, né per i corsi complementari, la cui organizzazione resta dunque alla discrezionalità del singolo istituto (Maione 2005: 13-15).
A tale provvedimento seguono nei primi decenni del Novecento una serie di disposizioni, le quali precisano le basi normative e didattiche che per circa un secolo struttureranno – e ancora oggi influenzano – l’organizzazione dei moderni Conservatori di musica italiani. Il primo completo ordinamento statale per gli Istituti di belle arti, di musica e d’arte drammatica è il Regolamento del 1918, dove relativamente ai Conservatori di musica si precisano: il numero massimo di allievi per classe, ribadendo la centralità del docente unico per l’intero ciclo di studi nei corsi principali; i limiti di età per l’ammissione e la durata dei corsi; gli orari di insegnamento dei docenti. Al vertice della governance interna degli istituti si conferma la figura del direttore, titolare di programmi d’esame, o la rosa di insegnamenti principali (analizzata nel primo e nel quarto capitolo): composizione, canto, organo, pianoforte, arpa, violino, viola, violoncello, contrabbasso, di un ufficio monocratico e responsabile per il buon andamento didattico, amministrativo, gestionale, disciplinare, affiancato nelle sue funzioni da un Consiglio dell’istituto e da un Collegio di professori, da assumere attraverso concorsi banditi con decreto del Ministro della pubblica istruzione (Spirito 2012: 7-8).
Negli stessi anni il dibattito interno all’ambito musicale sulla ristrutturazione dei corsi dei Conservatori gradualmente allarga i suoi confini, per porsi come più ampia questione culturale. A ciò contribuiscono i movimenti modernisti che si diffondono in Europa, facendo emergere una figura nuova del ‘musicista-intellettuale’, che con gli altri intellettuali prende parte ai processi di rinnovamento culturale e sociale (Salvetti 1991: 285-302, Sanguinetti 2003: 22–23). Sono in particolare i giovani musicisti italiani con esperienze di specializzazione all’estero, sempre più ricercate a causa dell’incompletezza dell’offerta formativa dei Conservatori italiani, che si fanno portatori di queste istanze innovatrici, nate dal confronto con sistemi educativi nei quali – come nel caso tedesco – la formazione musicale è integrata all’interno del sistema scolastico e perfezionata al livello universitario [La specializzazione all’estero diventa una esperienza formativa ricercata in particolar modo dai compositori e dai pianisti (Sanguinetti 2003).]
Tali istanze si traducono in alcuni progetti riformatori volti ad elevare i Conservatori a Università musicali e, conseguentemente, lo strumentista-artigiano a musicista-intellettuale (Sanguinetti 2003: 30). Tra le diverse proposte per convertire i Conservatori da scuole tecniche professionali in istituti superiori di cultura, a trovare maggiore seguito è quella di Giacomo Orefice, docente presso il Conservatorio di Milano, che prevede il ribaltamento del rapporto vigente nei Conservatori tra materie principali e complementari, attraverso l’istituzione di corsi di cultura musicale generale di base (composizione, storia ed estetica musicale), cui affiancare come sussidiari i corsi pratici delle scuole tradizionali (canto e strumento). L’apertura dei Conservatori anche a musicisti non professionisti avrebbe consentito di diffondere la cultura musicale nella società italiana, elevando il livello artistico complessivo del Paese.
Elevato così il Conservatorio a scuola di coltura musicale, ne seguirebbe logicamente che lo potesse frequentare anche chi non intenda a fare della musica una professione. Parlo della gran massa dei dilettanti, che si ha l’abitudine di considerare come quantità trascurabile, o peggio, mentre sono essi che formano l’opinione pubblica musicale del paese; […] elevare questa coltura dei dilettanti equivale quindi ad elevare l’arte. […] Colla trasformazione, in una parola, del Conservatorio in Università musicale. [Il passo, tratto da un articolo di Orefice intitolato Conservatorio o università musicale? apparso nel 1918 nella Rivista musicale italiana, è riportato in Sanguinetti (2003: 30) e Maione (2005: 23-24).]
Attorno al progetto Orefice si sviluppa intorno agli anni Venti del Novecento un vivace dibattito, condotto in riviste specializzate e attraverso confronti tra professionisti e funzionari responsabili del settore [Per una puntuale ricostruzione e i relativi riferimenti bibliografici, si rimanda nuovamente a Sanguinetti (2003:29-33), Maione (2015: 22-24), Delfrati (2017).].
Nonostante gli apprezzamenti ottenuti, la proposta incontra l’opposizione di gruppi di attori interessati a preservare la tradizionale distinzione tra il campo universitario e quello dei Conservatori: docenti universitari refrattari all’assimilazione di profili non compatibili con la definizione legittimata di cultura; docenti di Conservatorio poco propensi a cedere il livello più alto della formazione ad un’altra istituzione; politici e amministratori poco interessati allo sviluppo del settore (Sanguinetti 2003: 28, 30). Le voci contrarie trovano il loro alfiere nel compositore Ildebrando Pizzetti, il quale si erge, contro il dilettantismo di massa prospettato dal progetto Orefice, a difensore del professionalismo formativo dei Conservatori, ritenendo gli ordinamenti intoccabili nella loro impostazione di base, sebbene perfettibili in direzione di una maggiore selettività nell’ammissione, un ampliamento dei programmi di studio musicali, un innalzamento dei livelli cultura generale (Maione 2005: 25). Le capacità diplomatiche di Pizzetti, abile nel mediare tra spinte innovative e volontà di conservazione, sono decisive nella sostanziale conferma ottenuta dal modello tradizionale di Conservatorio all’interno della riforma Gentile [La riforma del sistema di istruzione promossa dal ministro Giovanni Gentile, realizzata con una serie di regi decreti legislativi tra il 1922-1923, restò in vigore sostanzialmente inalterata fino agli anni Sessanta, quando fu abrogata dalla legge del 31 dicembre 1962 n.1859, che abolì la scuola di avviamento per creare la scuola media unificata.].
La stessa riorganizzazione complessiva del sistema di istruzione del regime fascista, pur con qualche significativa novità – tra cui l’inserimento del canto come materia obbligatoria in tutte le classi della scuola elementare e nelle classi dell’istituto magistrale – non fa che rafforzare l’impostazione classista ed elitaria prevista dalla legge Casati. Agli studenti in uscita dalla scuola elementare pone la scelta tra due rami dell’insegnamento medio di istruzione, che segnano percorsi formativi e occupazionali fortemente differenziati: l’istruzione classica, scientifica e magistrale, mista e di cultura, da un lato, e l’istruzione tecnica e professionale, dall’altro. Gli istituti musicali statalizzati, cui è assegnata la denominazione comune di Regi Conservatori di Musica, sono inseriti con gli Istituti musicali pareggiati, le Scuole e gli Istituti d’arte e i Licei artistici all’interno del livello secondario nel settore dell’istruzione artistica, il cui controllo e gestione è assegnato alla Direzione Generale per le Antichità e le Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione (Maione 2005: 19).
I nuovi programmi d’esame dei Conservatori sono invece pubblicati nel 1930, a partire dalle proposte presentate dagli stessi direttori e docenti su invito del Direttore Generale per le Antichità e le Belle Arti. Seguendo la linea pizzettiana, l’impostazione generale dei nuovi programmi riprende l’impianto esistente, perfezionandolo in direzione di una più marcata selettività sulla preparazione tecnica degli allievi e una maggiore razionalizzazione e dettaglio sui corsi, col fine di raggiungere un’omogeneità formativa di qualità nei vari istituti nazionali. Sono dunque sostanzialmente confermati i requisiti generali in termini di età minima e massima per l’ammissione e l’organizzazione didattica con l’assegnazione nei corsi di studi principali di un numero limitato di allievi per docente, esclusivo referente per ciascuno di essi fino al completamento degli studi. Agli allievi accettati, in numero corrispondente ai posti annualmente disponibili previo superamento di una prova di ammissione, è consentito iscriversi ai corsi principali (ora chiamati scuole, mentre il termine corsi resta a designare le materie complementari) divisi in due o tre periodi, ciascuno completato con il superamento di prove basate sull’esecuzione di ampi repertori di complessità tecnica crescente, conclusi all’esame finale di diploma con l’esecuzione di un programma solistico da concerto (fondato sul canone classico-romantico, con qualche apertura alla contemporaneità). Per rafforzare la selettività degli studi, nel periodo superiore non è consentita la ripetizione degli anni, tollerata per solo un anno in ciascuno dei periodi inferiore e medio. Confermata anche la scarsa rilevanza assegnata ai corsi complementari – con l’eccezione del solfeggio, comune a tutte le scuole nel livello inferiore – e in particolare ai corsi non musicali; ciò è ancora più marcato nel caso di scuole ritenute meno impegnative e dunque meno bisognose di avere nozioni di cultura musicale o generale (come quelle di canto, contrabbasso e degli strumenti a fiato) (Maione 2005: 19-20; Lazotti e Ciolfi 2003). Assenti, infine, riferimenti ai contemporanei sviluppi europei nel campo della didattica musicale [Nel Ventennio tra la prima e seconda guerra mondiale si sviluppano una serie di nuovi approcci all’insegnamento della musica, che partono dal presupposto dell’esistenza in ogni essere umano di attitudini musicali, da coltivare durante le diverse fasi dello sviluppo. In tal modo il fuoco si sposta dall’apprendimento tecnico dello strumento per quei soggetti dotati di ‘talento innato’, tipico del modello conservatoriale, all’utilizzo di metodologie ludiche che prevedono l’utilizzo globale del corpo come strumento di percezione sensoriale ed espressione ritmica, armonica e melodica dei bambini. Tra queste metodologie. incontrano maggiore seguito quelle elaborate da Emile Jaques-Dalcroze, Edgar Willems, Zoltan Kodaly, Carl Orff, Maurice Martenot (Scoppola 2011: 35). Dei primi tentativi di di introdurre anche in Italia tali metodologie riferisce, tra gli altri, Delfrati (2017)]. In tal modo è rafforzato l’impianto monoculturale nella formazione artistica del musicista, nonché la sua estraneità alla cultura generale, così come definita nei percorsi standard del sistema di istruzione nazionale, visto che il titolo di cultura generale richiesto per l’ammissione si limita alla promozione dalla quarta alla quinta elementare.
A prevalere nella riorganizzazione fascista degli studi di Conservatorio è dunque la volontà dei musicisti e dei docenti di legittimare il modello didattico e organizzativo al quale erano stati formati professionalmente, riproponendolo in termini autoreferenziali alle nuove generazioni di musicisti. Tale modello, pur conformandosi alle principali caratteristiche dell’idealtipo di Conservatorio come istituto per la formazione dell’eccellenza virtuosistica, legittimato nelle società occidentali dall’estetica tardo-ottocentesca, nella versione italiana risulta in maniera più accentuata legato ad una tradizione di formazione professionale artigianale, che trova una collocazione del tutto marginale all’interno del sistema legittimo di istruzione nazionale.
BIBLIOGRAFIA
- Cesari C. (2005) “Musica ed educazione: sguardo storico sull’Europa e la situazione italiana”, M. Padoan, Affetti musicali: studi in onore di Sergio Martinotti, Vita e Pensiero, Milano.
- Colarizi G. (1971) L’insegnamento della musica in Italia, Armando editore, Roma.
- Crea A. (2011) “Accademie filarmoniche e scuole di musica a Messina tra ’600e ’900”, D. Novarese (a cura di) Accademie e scuole: istituzioni, luoghi, personaggi, immagini della cultura e del potere, Giuffrè, Milano.
- Delfrati C. Storia critica dell’insegnamento della musica in Italia, ebook, Antonio Tombolini Editore.
- Lazotti B., U. Piovano, S. Ciolfi, P. Carlomagno, M.G. Sità (2003) “La formazione di cantanti e strumentisti (I e II)”, G. Salvetti e M.G. Sità (a cura di), La cultura dei musicisti italiani nel Novecento, Guerini, Milano.
- Maione O. (2005), I Conservatori di musica durante il fascismo. La riforma del 1930: storia e documenti, EDT, Torino.
- Salvetti G. (1991) “La nascita del Novecento”, AA.VV., Storia della musica, a cura della Società Italiana di Musicologia, EDT, Torino.
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- Vaccarini Gallarani M. (2003) “Modelli culturali e contenuti dell’istruzione musicale”, G. Salvetti (a cura di) Milano e il suo Conservatorio, Skira, Milano.