La musica come espressione del nazionalismo
Sul finire del XIX secolo la musica si politicizza e si nazionalizza (si vedano le storie del Gruppo dei Cinque, il nazionalismo wagneriano ma anche le diverse scuole nazionali e il ruolo di artisti come Verdi nella nascita di un sentimento patriottico in Italia) ed anche le sue istituzioni più impegnative, come appunto le orchestre, seguono questo cammino.
All’inizio del XX secolo in Europa le istituzioni musicali, specialmente le orchestre passano dal controllo degli stessi musicisti o delle associazioni di appassionati a quello statale, anche perché le piccole amministrazioni locali fanno sempre più fatica a mantenerne i costi. L’uso a fini nazionalistici delle orchestre e della musica sinfonica assumerà la massima evidenza nella prima parte del XX secolo, con l’avvento del nazismo, di cui i Berliner Philharmoniker diventano, sebbene in modi non del tutto privi di ambiguità (Aster 2007), il simbolo. Ma resta anche un tema attuale, per esempio per quanto accade ai giorni nostri in Venezuela.
I Berliner e il Terzo Reich
Dal canto loro in Europa le orchestre, che dovevano la loro esistenza alla vendita dei biglietti e degli abbonamenti, cominciarono a necessitare sempre di più del finanziamento prima locale e poi statale. Ed è proprio la necessità del finanziamento statale permette di mettere a tema il rapporto tra musica e politica, analizzando la relazione tra il partito nazista e i Berliner Philharmoniker.
Questo è il tema che ha ispirato il film del 2002, del regista Istvàn Szabò, basato sul processo a Wilhelm Furtwängler, accusato dagli americani (e ritenuto innocente) di aver sostenuto il regime e di aver fatto propaganda antisemita contro Victor de Sabata. Durante il processo il Direttore dichiarò:
“Sapevo che la Germania era in una situazione terribile; io mi sono sentito responsabile per la musica tedesca, ed è stato mio compito farla sopravvivere a questa situazione, per quanto ho potuto. La preoccupazione per il fatto che la mia musica potesse essere usata dalla propaganda ha dovuto cedere alla preoccupazione più grande di conservare la musica tedesca, di farla ascoltare al popolo tedesco. Questo popolo, compatriota di Beethoven, Mozart e Schubert, doveva ancora vivere sotto il controllo di un regime ossessionato dalla guerra. Nessuno che non abbia vissuto quei giorni può giudicare com’era. Non potevo lasciare la Germania in quello stato di massima infelicità. Andarsene sarebbe stato una fuga vergognosa. Dopo tutto sono un tedesco, qualunque cosa si possa pensare di questo all’estero, e non rimpiango di aver fatto questo per il popolo tedesco.”
Il processo
L’esito del processo lo vide giudicato innocente: la visione puramente estetica della musica non solo reggeva pienamente negli anni ’50, anche davanti a una giuria dopo anni di guerra sanguinosa, ma regge anche oggi pur negli occhi di un ebreo come Daniel Barenboim (2007), che parlando proprio di Furtwängler, lo descrive come uno “straniero” di questo mondo, “anti-ideologo per eccellenza”, residente di un mondo fatto d’arte e di musica.
Al di là di questo, era comunque evidente ad inizio secolo, come mostra Aster (2007) in un documentatissimo saggio sull’attività dei Berliner durante il Terzo Reich, il legame indissolubile (ancorché bidirezionale) tra musica, in particolare orchestra e teatro, e politica ad alto livello (con la P maiuscola). Tale rapporto, ovviamente, dopo la guerra andava ricostruito. Perciò anche se in modalità peculiari in ogni paese, durante il boom economico dagli anni ’50 in Europa si sono istituiti dappertutto i Ministeri per la cultura e susseguiti fondamentalmente due modi diversi di finanziarla (Bobbio 1992).
Fino agli anni settanta si preferì il finanziamento diretto agli enti musicali (professionali) da parte soprattutto dei governi centrali; negli anni ’80 si passò invece a sviluppare politiche distributive che hanno dato luogo negli anni successivi ad un progressivo decentramento, semplificazione normativa e apertura ai privati del settore, di cui si finanziano ormai le performance e non più le strutture (salvo i teatri più grandi e particolari eccezioni). Questo è un quadro che, sebbene conti numerose eccezioni locali, si mostra in modo comune, almeno ad Ovest del muro di Berlino.
Dunque sotto i colpi della crisi economica, l’influenza personale dei grandi direttori e la necessità di sponsorizzazioni private e la guerra, il modello democratico della New York Philharmonic resta di breve durata, ed ha sviluppi diversi: l’uno verso lo Stato e gli enti pubblici (fino agli anni ’70), l’altro verso la società civile e i capitali privati (nei paesi anglofoni sin dagli inizi del secolo e dopo gli anni ’70 nell’Europa occidentale).
Il Sistema Venezuelano come strumento della dittatura
In un articolo sul New York Times del 17 febbraio 2012, Daniel Walkin afferma che molti, come il pianista venezuelano Gabrile Montero, sono sconvolti dal fatto che Chávez abbia “preso il Sistema come suo figlio, ma non lo è”. E fa successivamente notare che quando il presidente dell’Assemblea nazionale ha presentato all’Assemblea stessa tre violinisti bambini del Sistema il mese scorso ha fatto in modo di notare che erano “nati nella rivoluzione”: la rivoluzione del signor Chávez. Il funzionario, Diosdado Cabello, un ex socio militare del presidente che ha preso parte al fallito tentativo di colpo di stato del 1992, ha osservato che i bambini erano più giovani del regime di Chavez e che rappresentavano “la patria bella che si sta costruendo con il socialismo bolivariano”.
Un’altro episodio che ha fatto infuriare i critici di Chávez è stato quando Dudamel ha diretto l’inno nazionale per le trasmissioni di apertura di una stazione televisiva finanziata dal Governo che ha sostituito un canale anti-Chávez determinandone la chiusura. Dudamel ha anche portato una versione travolgente del “Mambo” di Leonard Bernstein in una celebrazione del bicentenario del Venezuela che è stata dominata da gigantografie di Chávez. Richiesto di spiegazioni, ha risposto che “la gente ama politicizzare, ma non è la cosa giusta da fare”.
Altri intellettuali si sono pronunciati conto tale dominio del dittatore sudamericano: il signor Dudamel “ci ha ricordato altre volte tristi, come gli incontri di Chamberlain con Hitler” ed “Ezra Pound con Mussolini”, ha scritto Gustavo Coronel, un ex membro del Congresso venezuelano; mentre Saúl Godoy Gómez ha scritto sul quotidiano El Universal che le orchestre venezuelane venivano usate come “facciate, come uno spettacolo grottesco per coprire uno dei governi del mondo che più viola i diritti umani”. Eduardo Casanova, uno scrittore venezuelano, ha commentato che “ora la dittatura è un musicista che canta le sue lodi”, facendo riferimento alla comparsa Abreu alcuni anni fa su “Alò Presidente”, lo show televisivo della domenica di Chavez.
L’utilizzo strumentale del Sistema da parte di Chavez avviene anche attraverso le scaramucce diplomatiche. Il nazionalismo venezuelano emerge non solo dalle divise e dai nomi del FESNOJIV, ma viene sfruttato fortemente nelle politiche internazionali. Per la celebrazione del bicentenario dell’indipendenza del Venezuela e con il “giorno del Venezuela” all’expo di Shanghai, l’ambasciatrice Rocio Maneiro dichiarò la disponibilità del Governo Cinese a stanziare un milione di dollari per coprire i costi della Simon Bolivar Orquesta e della sua comitiva, compreso Gustavo Dudamel, per un concerto il 5 luglio 2010. Di quel che risultò, ossia il mancato versamento al FESNOJIV e l’annullamento del concerto, le fonti venezuelane affermano si stesse in realtà ancora trattando con il colosso del petrolio cinese SINPOEC per coprire quei costi (per la terza volta, fece notare l’azienda).
A parte il concerto, le trattative per il petrolio sono terminate nel 2012, anno durante il quale il Venezuela e la Cina hanno sottoscritto quattordici contratti per un totale di 10 miliardi di dollari destinati soprattutto allo sviluppo e all’estrazione di petrolio, che portano la collaborazione bilaterale tra i due paesi a 38 miliardi di dollari. Dell’intero ammontare, ha spiegato il Ministro dell’Energia e del petrolio di Caracas, Rafael Ramirez, circa 4 miliardi di dollari saranno destinati a un fondo binazionale di cooperazione per progetti di sviluppo e 1,5 miliardi alla costruzione di 13 mila alloggi in una zona militare a sud-est di Caracas. Altri 4 miliardi andranno ad aumentare la produzione della società cino-venezuelana Petrosinovensa nei pozzi di petrolio dell’Orinoco, una zona del Venezuela con riserve di greggio stimate a 235 miliardi di barili.
Ancora una volta dunque le politiche sociali venezuelane sono una forma di baratto dei proventi derivati dal petrolio. Ed in esse ha una parte ovviamente anche il Sistema di Abreu. A seguito dello scandalo infatti (che si è protratto per mesi) il Governo cinese donò dieci milioni di dollari, compresi oltre 800 strumenti musicali (corde, percussioni, fiati). Gli ambasciatori Rocío Maneiro e Valdemar Rodríguez sottoscrissero a Pechino l’atto di donazione segnalando anche che questa poteva essere il primo passo anche per la costruzione di fabbriche di strumenti musicali in Venezuela.
Da tutto questo un dato emerge fortemente: ieri come oggi una caratterista peculiare del Venezuela è quella di produrre politiche sociali dipendenti dal Governo piuttosto che dallo Stato, ossia di ritenere il sociale non tanto come un ampliamento della volontà statale, bensì di quella prettamente politica. Oggi ciò significa che Chavez stesso è il promotore (una sorta di benevolo pater familias) del FESNOJIV e ad Abreu questo andrà bene finché continuerà a stanziare fondi.
In un paese dove la forma delle politiche sociali assume spesso vesti assistenzialiste e personalistiche non c’è da stupirsi se l’atteggiamento di Abreu sia quello di restare aperto agli accadimenti più che fedele a un piano o un ideale rigido. Ed in effetti egli stesso illustrò questo concetto e questa consapevolezza in un’intervista a Repubblica del 2006: migliorare la situazione sociale – spiegava – è compito assai arduo perché l’orologio dello Stato è “in continuo movimento e bisogna cambiare la ruota che gira” durante la sua rotazione. “Si deve trovare un appoggio per la durata della società, il quale la renda indipendente dallo stato di natura che si vuole abolire”. Questo atteggiamento pragmatico ne determina la capacità a continuare a far sopravvivere le sue orchestre e qualunque sarà il responso della storia sul Sistema e sulla dittatura chaveziana, la capacità di mediare e di adattarsi a ciò che accade (internamente ed esternamente) è e resta una caratteristica fondamentale di questa politica.
Poiché El Sistema è nato e si è sviluppato attraverso sei governi prima delle elezioni Chávez, è forse ingiusto condannare Abreu e Dudamel, la cui principale preoccupazione è di tenere El Sistema in piedi e in espansione. “Non voglio che vada in guerra contro Chávez”, ha detto, riferendosi ad Abreu, Moisés Naim, ex ministro venezuelano che ora è un senior associate nel programma di Economia Internazionale presso la Carnegie Endowment di Washington. “Se ciò accade, il Sistema soffrirà.” L’unico modo con cui El Sistema può sopravvivere è che il capo di tale istituzione straordinaria rimanga in silenzio sul governo.
Si pone però effettivamente un problema affine a quello trattato da Misha Aster in “L’orchestra del Reich” (2007), ossia se e come sia possibile scindere la musica dal contesto morale in cui viene praticata. La studiosa canadese analizza i carteggi, quel che resta dell’archivio dei Berliner dopo la distruzione delle sue sedi dovuta ai bombardamenti alleati, documenti provenienti dall’Archivio di Stato della Germania nazista, le raccolte private di alcuni musicisti dalla nomina di Hitler nel 1933 alla sconfitta tedesca. Scopre così che l’ascesa di Hitler coincise con una grave crisi finanziaria dell’orchestra e che l’appoggio del Reich permise ad un ente che stava fallendo di sopravvivere e che il fatto d’esser a loro volta sfruttati per mostrare la potenza del Reich a livello internazionale abbia contribuito alla sua fama e al suo successo. Furtwängler, sebbene non si fosse mai iscritto al partito a tutti gli effetti prestò la propria immagine a tutti gli scopi a beneficio del regime ed ha sempre giustificato nel nome dell’arte: sia quando si dimise nel ’34 per un’opera di Hindemith vietata dal Reich sia quando difese alcuni musicisti ebrei (basandosi solo sul loro valore artistico).
In conclusione, da un punto di vista politico, accettare l’inevitabilità di un legame a doppio filo con un dittatore e con le multinazionali del petrolio può certamente essere considerato un atteggiamento non del tutto “etico” secondo molti dei nostri canoni. La capacità di sopravvivere del Sistema si deve anche al fatto di sottoscrivere questi accordi (come in passato è dipesa dalla sua adattabilità e inventiva nel rispondere alle richieste dei suoi finanziatori), cercando di portare a compimento, in fondo, sempre e solo il suo progetto iniziale: aumentare l’importanza, il numero e il livello di musicisti e orchestre venezuelane.
PROSEGUI LA LETTURA – The singing revolution – Con la musica si può fare la rivoluzione